Fratelli Bandiera

via Fratelli Bandiera

Figli del barone Francesco (1785-1847), contrammiraglio della marineria austriaca, e di Anna Marsich; nati a Venezia, Attilio il 24 maggio 1810, Emilio il 20 giugno 1819; educati entrambi nell’imperiale Accademia di marina di Venezia; nominati ufficiali, uno nel 1828, l’altro nel 1836; Attilio sposato il 19 ottobre 1837 con Maria Graziani, figlia di Leone, anch’egli ufficiale superiore dell’armata imperiale. Benché vestiti dell’assisa austriaca, sorse e ben presto ingigantì nell’animo dei due fratelli il desiderio di redimere l’Italia dalla servitù straniera: per quest’ideale, che in quei tempi pareva utopia, essi affrontarono la temeraria impresa che li condusse alla tragica fine. Le prime tracce della ribellione morale dei Bandiera sono contenute in una lettera scritta il 6 aprile 1836 da Attilio a P. Maroncelli, esule a New York. In essa egli svela la sua fede con queste parole: “Ai soppressi palpiti degli Italiani che, sotto il fulgido sole della loro patria, trascinano le obbrobriose catene della servitù, possano rispondere le energiche e libere parole di chi tanto soffrì….”. Nel 1840, durante la guerra di Siria, mentre i due fratelli erano imbarcati sulla nave ammiraglia comandata dal padre, cominciò la cospirazione, al fine di “fondare una società segreta per affrancare l’Italia dal dominio straniero”. La società ebbe vita nel 1841, col nome di Esperia, svincolata da ogni preconcetto di monarchia o di repubblica, ma solo mirante a conseguire la libertà e l’unità nazionale. Severo, ma chiaro il lungo statuto che, tra l’altro, rammentava agli associati il dovere di fare ab initio getto della loro vita con freddezza di stoici, accostumandosi all’idea della morte, come alla “fine di una prova difficile”, e impegnava con giuramento terribile a non risparmiare i traditori. Impegni ardui, che volevano cuori saldi; pure la società si estese in breve tempo e raccolse proseliti nell’armata, perché veneto, dalmata o istriano era il personale marinaresco, ed italiana la lingua ufficiale di bordo. Il Mazzini nei Ricordi dei fratelli Bandiera smentisce che l’Esperia fosse sorta per suo impulso e ne reca a prova una lettera del 15 agosto 1842, nella quale Attilio gli scriveva che solo in quei giorni aveva potuto aver tra mano qualche suo scritto e il suo recapito.

Solo quando verso la fine dello stesso anno Domenico Moro, veneto anch’egli e compagno dei due fratelli, ebbe visitato Mazzini a Londra, la corrispondenza fra Mazzini e i Bandiera divenne assidua: in quelle lettere i Bandiera descrissero la loro vita, i loro pensieri, i loro propositi, i fini della società che avevano creata. Fu convenuto che l’Esperia dipendesse dalla Giovine Italia, e che il Mazzini ne fosse il dittatore. Nel 1843 le notizie dall’Italia facevano ritenere la rivoluzione imminente. Il 15 novembre Attilio scrive al Mazzini che “questo fermento potrebbe essere l’aurora del gran giorno della liberazione e che ad ogni patriota corre l’obbligo di cooperare”. I due fratelli e Domenico Moro carezzano poi l’ardita idea di far ribellare la flotta austriaca, ribellione che doveva coincidere con un moto che un’altra società segreta, la Legione Italiana, preparava a Malta sotto la guida di Nicola Fabrizi; ma l’insurrezione italiana, secondo le idee del Mazzini, avrebbe dovuto precedere la presa d’armi del Fabrizi e la spedizione militare dell’Esperia. Verso la fine del 1843 Emilio si staccò dal fratello, perché chiamato a Venezia quale aiutante di bandiera dell’ammiraglio Paolucci, e i due fratelli, nel dividersi, presero gli opportuni concerti per tenersi reciprocamente informati e, in caso di pericolo, correre la medesima sorte. Le ossa dei martiri, che dovevano esser gettate nella fossa comune dei delinquenti, furono salve per la pietà del curato della chiesa di S. Agostino, istigato dai liberali cosentini. Durante la rivolta calabrese, il 15 marzo 1848, quelle povere spoglie, tolte dal nascondiglio, furono seppellite con onore nella cattedrale di Cosenza; ma, sopraggiunta la reazione, il generale Busacca le fece esumare e ordinò che fossero gettate nel Neto. Di nuovo salvate con gran pericolo dai liberali, furono nascoste in una fossa del tempio dalla quale, nel settembre 1860, le trasse Nino Bixio giunto a Cosenza coi volontari e dette loro nuovamente onorata sepoltura. Finalmente, il 16 giugno 1867 i resti mortali dei Bandiera e del Moro tornarono a Venezia e furono tumulati nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo. All’apoteosi assisté la madre, che morì a 86 anni il 22 febbraio 1872.