via dei De Vita
In quel tragico mattino del 27 luglio 1861 una cinquantina di briganti, chi a cavalli e chi pedone, furono accompagnati da una folla di cittadini al carcere presso l’ex monastero di S. Francesco per liberare i detenuti. Gli stessi, dopo aver trucidati i due Trepiccioni, si recarono nella strada Donnangioli (ora via Diaz), presso l’abitazione di Giuseppe De Vita e un tale Vincenzo Sellitti chiese al figlio Francesco, musicante, una tromba: questi non se lo fece dire due volte, perché ne diede immediatamente una. Subito dopo, però, gli venne riconsegnata, richiedendone una migliore e precisamente quella che egli suonava durante i concerti. Ottenutala andarono via, ma verso le ore ventidue, si presentò ancora un gruppo di una decina di persone accompagnati da Ignazio e Girolamo Notarangelo, oriundi di Monte S. Angelo, che catturarono padre e figlio, li legarono insieme e li condussero al largo di S. Francesco e senza pietà li fucilarono. Francesco non morì subito e fu allora massacrato da uno dei briganti a colpi di sciabola. Gli altri briganti invece tornarono indietro e si diedero a saccheggiare la casa. Onofrio, figlio e fratello degli uccisi, diciassettenne, anch’egli bandista, scampato all’eccidio, nella sua testimonianza rilasciata al giudice Casale, chiarì e contemporaneamente accusò i due Notarangelo, dicendo: “I briganti, fino allora li avevano rispettati. Non li avrebbero al certo molestati se non fossero stati spinti da quei ribaldi, i quali erano stati fino allora in urto con i disgraziati per ragione di professione, mentre Ignazio Notarangelo che ambiva rimanere alla direzione della banda musicale, erasi tenuto mortalmente offeso per essere stato surrogato in questo ufficio dal fratello Francesco. Questa gara di precedenza aveva suscitato tra Notarangelo e De Vita differenti contese.