NELL'ERA DI ROMA

Con la conquista di Taranto (272 a. C.) i Romani potevano considerarsi padroni di tutta la regione pugliese. Anche la Daunia, pertanto, passò sotto il dominio di Roma, entrando così in una nuova fase di civiltà. Completamente ellenizzata nella cultura, nell’arte, nella religione, la Daunia viene a contatto con la civiltà latina per prendere, poi, stabile dimora nell’articolato mondo romano. Già in precedenza i Dauni avevano avuto contatti con Roma. Alla vigilia della guerra romano-gallo-etrusco-sannitica (299-290 a. C.) essi erano, infatti, suoi alleati. Ma, i primi veri rapporti con il mondo latino risalgono al ten1po della II guerra sannitica (326-304 a. C.), allorché le città di Arpi e Luceria per difendersi dai Sanniti chiesero l’amicizia di Roma. Nel 314 a. C. i Romani stabilirono a Luceria la loro prima colonia militare in Puglia. Successivamente, con la conquista delle due rive del- 1’Adriatico (229-228 a. C.), la Daunia entra definitivamente a far parte del mondo romano e durante la II guerra punica (218-201 a. C.) fu per lungo ten1po teatro di battaglie. Dopo la disfatta di Canne alcune città daune, tra le quali Arpi e Salapia, abbandonarono la causa romana. La città di Arpi fu nuovamente occupata dai Romani nel 213 a. C. e alla fine della guerra, per il suo tradimento, fu severamente punita con l’assegnazione di una parte del suo territorio alla nuova colonia dedotta a Sipontum nel 194 a. C.. In questa città un’altra colonia militare fu dedotta nel 185 a. C.. Durante la guerra sociale i Dauni si staccarono da Roma e parteggiarono per gli Italici. Nella zona fu inviato il pretore Vindicino e poi Caio Cosconio, il quale prese Salapia e Canne e pose assedio a Canusium. Nell’89 a. C. tutta l’Apulia fu conquistata e pacificata e la maggior parte delle sue città furono organizzate in municipium e gli abitanti ottennero la cittadinanza romana. In seguito la Daunia fu teatro di nuove lotte, nella guerra dei gladiatori e nella guerra civile tra Ottaviano e Antonio. Con l’epoca di Augusto molte città della Daunia rifiorirono: Sipontum venne a trovarsi all’incrocio di due vie di traffico, la litoranea che scendeva da Ancona e la Aeca-Arpi-Sipontum, le cui tappe sono riportate dalla Tabula Peutingeriana; Salapia, dopo le proposte del pretore Marco Hostilio, fu ricostruita dopo il 44 a. C. in sito più salubre, nella zona del Monte di Salpi. Luceria venne dotata di anfiteatro ed ebbe una nuova colonizzazione, certo di ripopolamento.

Nell’età imperiale vari provvedimenti di carattere generale furono presi per questa regione: Nerone e Vespasiano stanziarono veterani e soldati nelle città declinanti per fermare lo spopolamento; Traiano fece costruire una nuova arteria stradale che, passando per i centri di Aeca, Herdonia, Canusium, unirà Brindisi a Roma. Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio promossero provvedimenti per l’agricoltura. In questo periodo i centri più importanti della Daunia sono: Arpi, Luceria, Canusium, Sipontum, Salapia, Teanum Apulu1n, Ausculum, Aeca, Herdonia. Questi centri con eccezione di Siponto e Salapia che sorgono sulla laguna, si elevano come vere cittadelle lungo il corso dei diversi fiumi che solcano il Tavoliere. E il Gargano? Quale fu nel saliente moto della civiltà romana la parte che ebbe il Promontorio? Il Gargano fa parte integrante della Daunia (tutte le fonti antiche, quantunque siano imprecise, non escludono mai come dauni il Gargano e i suoi centri). Ma, come è noto, le vie piane percorse dai grandi traffici respinsero il Gargano nella sua naturale posizione di isola; delle grandi arterie romane solo la Frentana toccava appena Siponto, mentre le altre scendevano dritte, tagliando fuori tutto il Pro- montorio. Inoltre, la strada che collegava Siponto con il resto del Gargano era aspra ed inaccessibile, di “asper accessu”. Tuttavia, la regione garganica, che già aveva subito l’influenza della civiltà greca, non restò tagliata fuori dalla nuova civiltà, nè, peraltro, restò isolata economicamente, dal momento che sulle sue coste fiorirono città di una qualche importanza, come Apeneste, Hyrium, Merinum. Le popolazioni garganiche a contatto col mare, come tutte le genti rivierasche, svilupparono il loro commercio già fiorente precedentemente. Le relazioni con le altre città marittime italiche e con l’Oriente sono attestate da ceramiche e monete rinvenute in diverse località del Promontorio. Due scali importanti erano Portus Agasus e Portus Garnae, il primo sulla costa meridionale e l’altro a nord del Gargano. Di questi due porti, ricordati dal solo Plinio, si ignora però la loro ubicazione precisa. Portus Agasus, secondo la topografia tracciata dal noto naturalista romano, doveva essere ubicato tra Matinum e Apeneste nella località attualmente denominata “Porto Greco”. Circa l’origine del nome, sembra che esso derivi da Agasse o Angesso, città della Tracia.

Portus Garnae doveva trovarsi, invece, sull’altro versante, lungo la costa settentrionale del Gargano, dal momento che Plinio lo pone tra il “promontorium montis Gargani” e il “Lacus Pantanus”. Il Colella ritiene che questa località corrisponde al “sinus Urias” di Pomponio Mela e lo mette, quindi, in relazione con Uria, considerandolo suo porto. Anche il Romanelli, il Del Viscio e il Chieffo ritengono che questo porto doveva trovarsi alla imboccatura del lago di Varano, allorché questo era in grado di funzionare da comodo e sicuro approdo. Anche il Gargano raggiunse il massimo splendore nel secolo di Augusto. Ricordato nei suoi centri principali da Plinio il Vecchio, Pomponio Mela e Tolomeo, è menzionato da due famosi poeti latini: Orazio e Virgilio. Da Strabone si apprende che esso si protrae per 300 stadi nel mare, verso levante; da Orazio che i suoi querceti sono spesso battuti dagli aquiloni, oppure che i suoi boschi muggiscono al soffio dei venti. Virgilio, descrivendo l’uso del contadino pugliese di incendiare le stoppie dopo la mietitura, accenna ai bagliori che i fuochi proiettavano sul Promontorio. A Vieste numerose sono le testimonianze della civiltà romana: avanzi di costruzioni, tombe, vasi, lucerne, suppellettili, iscrizioni, monete e alcuni mosaici. Il Giuliani nell’op. cit. parla di tombe dell’epoca ro- mana venute in luce a Vieste. Su alcune di esse furono trovate anche delle iscrizioni in latino, tra le quali è da segnalare una breve epigrafe funeraria di persona appartenente alla “gens Pomponia”. Un’altra iscrizione, riportata su un tavellone di terracotta, proviene da una tomba scoperta in località “S. Tecla”. Anche l’arciprete Abatantuono, nel suo Diario, fa menzione di cisterne, pavimenti colorati e “qualche pezzo alla musaica”, non ché di numerose tombe, nelle qua- li furono trovati vasi, lucerne, unguentari e monete di bronzo e d’argento dell’epoca romana. Numerose monete di questo periodo furono raccolte e catalogate dal Petrone: ve ne sono del periodo consolare e soprattutto del periodo imperiale. Esse recano le immagini di quasi tutti gli imperatori e gli emblemi di molte delle famiglie romane dell’epoca. Vi è anche qualche moneta con l’effige di Marco Agrippa, genero di Augusto, e di Germanico e vi sono persino alcuni “sesterzi”.

Altre ancora sono degli imperatori d’Oriente. Un mosaico policromo quasi intatto venne in luce nel 1920 a circa venti metri dalla strada provinciale (ora Viale XXIV Maggio), sulla sinistra, nell’area compresa tra le odierne vie Fleming e Jenner. Di questo mosaico, scoperto alla profondità di mt. 2,40, venne eseguita una fotografia, che per fortuna si conserva ancora, ma ciò avvenne, purtroppo, quando esso era stato ancora parzialmente scoperto. All’epoca romana appartengono anche i ruderi del- l’antica Merinum, i cui abitanti “Merinates ex Gargano” sono ricordati da Plinio nella sua Naturalis Historia. Certamente di fondazione preromana, prevalentemente ellenica, essa doveva essere una città molto ricca al centro economico commerciale del Gargano orientale, come si può desumere dai resti di alcuni sontuosi edifici ivi rinvenuti. Merinum fu stazione agricola di rifornimento, mentre non si esclude che fosse anche dotata di un porto. In agricoltura dominava la coltivazione dell’olivo e l’allevamento ovino e molto progredita industrialmente era la produzione dell’olio e della pece, che si ricavava abbondantemente dai pini da cui è ricoperta la zona circostante. Questi prodotti venivano esportati via mare e in cambio si importavano vasi, ceramiche, oggetti artistici, a1imentando così il traffico commerciale con l’Oriente. Sulla fine di questa città nulla si sa di preciso. “In che tempo e da chi fosse stata distrutta – scrive il Giuliani – non se ne ha memoria tra gli scrittori. Egli è ben certo che non finì il suo lustro nel gentilesimo, o con la religione pagana di Roma, mentre anche nei tempi fortunati dell’era cristiana ebbe ella il vanto di avere la sua

cattedra vescovile”. Mancano, però, le fonti che possano documentare quanto asserisce il Giuliani soprattutto riguardo alla sua antica tradizione cristiana. Né il Lanzoni né l’Ughelli infatti accennano, nelle loro opere, a Merinum. Tuttavia gli scavi effettuati nella zona hanno messo in luce non solo strutture architettoniche di epoca romana, ma anche alcune lucerne che presentano i segni visibili del primo cristianesimo. Forse è stata distrutta in conseguenza di qualche violento cataclisma: terremoto e conseguente maremoto? Oppure venne abbandonata a causa dell’aria “poco sana” delle vicini paludi di Pantano? O veramente è stata “annientata e desolata” intorno al 1000 dai Saraceni? Sono domande alle quali non si può dare una risposta precisa; tuttavia, l’ipotesi più probabile è che essa sia stata distrutta da un’alluvione. Nelle sue immediate vicinanze, infatti, si scarica il torrente Macchia, il quale provoca durante le piene la formazione di ripetuti meandri nel piano, originando esondazioni ed impaludamenti, con abbondanti depositi ciottolosi e strati di belletta argillosa, che disseccandosi e indurendosi trasforma il ridente piano in un paesaggio desolato e privo di vita. Tale ipotesi sarebbe confermata dal fatto che gli scavi effettuati nel 1954 misero in evidenza uno spesso strato alluvionale che ricopriva i ruderi dell’epoca romana, come risulta da una relazione del prof. Giuseppe Ruscitti. Quando ciò si è verificato non è possibile dirlo, comunque certo che la distruzione di questa città avvenne nell’alto medioevo. Infatti, nell’enumerazione delle terre abitate in Capitanata al principio del 1000, mentre sono nominati i centri di Gargano (attuale Monte S. Angelo) e Vieste, e i casali di S. Salvatore e S. Tecla, non si fa menzione alcuna di Merino: ciò è indizio, almeno probabile, che in quell’epoca essa, come centro abitato, non esisteva più. E se Pompeo Sarnelli nella Cronologia de’ Vescovi ed Arcivescovi Sipontini asserisce che Pasquale II unì il vescovato di Merino a quello Viestano, 1nolto probabil- mente “quella unione non fu che un prendere atto, da parte della Chiesa, della sua scomparsa”. In realtà, però, è da escludere ogni possibilità di unione di sedi, dal 1nomento che “in nessun catalogo di diocesi figura mai il nome di Merino, quale sede di diocesi. In nessun documento Merino figura sede di diocesi a sé”.

Nella zona di Merino già nel secolo scorso erano venuti in luce vicoli, strade interrate e le sommità di alcune edifici su cui si potevano osservare dei canaloni per lo sgrondo delle acque. Ma, soltanto nel 1954 con l’istituzione di un cantiere di lavoro, che fu diretto dall’ing. Lorenzo Diana, vennero in luce i resti di alcune costruzioni che portarono a fissare, sia pure in senso lato, la topografia dell’antica città. Gli scavi, condotti nei pressi della Chiesetta di S. Maria, portarono alla luce i resti di una villa di età augustea, composta da diversi ambienti con pavimento in opus spicatum, in uno dei quali si rinvenne un mosaico, raffigurante nella parte centrale una scena tipicamente rurale (la nascita di un cavallino) e agli angoli figure di giovinetti in altrettante scene campestri. Il mosaico era realizzato in opus tessellatum con pietre fluviali levigate di diversi colori. In un’altra sala, senza pavimento, vi erano delle olle di argilla cotta di varia grandezza, ognuna fissata al proprio posto da una rivestitura esterna di pietre e malta. Nella stessa zona furono scoperti anche un cunicolo di fognatura e i resti di una costruzione ellissoidale, che sarebbe appartenuta ad una fabbrica di pece. Il piano urbano appartenente a queste costruzioni è sottoposto a quello attuale di 2 metri circa in media. I n1deri rinvenuti, costruiti in maggioranza con pietre locali e, in minima parte con mattoni di terracotta cementati con malta resistentissima, appartengono tutti all’epoca romana. A quest’epoca appartiene anche il muraglione fuori terra, sulla sinistra della chiesetta, che si presume essere parte di uno dei muri di cinta della città, dimostrando così che la zona dei ruderi altro non è che la periferia della citta scomparsa, il cui abitato si estendeva tra la zona degli scavi e le pendici della collina. Fra gli oggetti rinvenuti sono da segnalare un bi- sturi, alcune monete degli imperatori d’Oriente, diverse lucerne e alcune olle di argilla cotta.