STORIA
Abitate già in antichità (IV-III secolo a.C.), le isole per secoli furono soprattutto un luogo di confino. In epoca romana le isole erano note con nome Trimerus che deriverebbe dal greco trimeros, τρίμερος ossia “tre posti” o “tre isole”. L’imperatore Augusto vi relegò la nipote Giulia che vi morì dopo vent’anni di soggiorno forzato. Nel 780 Carlo Magno vi esiliò Paolo Diacono che, però, riuscì a fuggire. La storia dell’arcipelago non è però solo legata agli esiliati, più o meno illustri, che qui furono confinati, ma soprattutto alle vicende storiche, politiche ed economiche dell’abbazia di Santa Maria a Mare (definita da Émile Bertaux la Montecassino in mezzo al mare) Secondo il Chartularium Tremitense il primo centro religioso fu edificato nel territorio delle isole adriatiche nel IX secolo ad opera dei benedettini come dipendenza diretta dell’abbazia di Montecassino. Certo è che nell’XI secolo il complesso abbaziale raggiunse il massimo splendore, aumentando a dismisura possedimenti e ricchezze, cosa che portò alla riedificazione da parte dell’abate Alderico della chiesa con consacrazione nel 1045 effettuata dal vescovo di Dragonara. La magnificenza di questo periodo è testimoniata dalla presenza tra le mura del monastero di ospiti illustri, tra i quali Federico di Lorena (divenuto poi papa Stefano IX) e Dauferio Epifani (successivamente papa Vittore III). Con la bolla di Alessandro IV del 22 aprile 1256 venne confermata la consistenza dei beni posseduti dalla comunità monastica. L’intero complesso rimase un possedimento dell’abbazia di Montecassino per circa un secolo, nonostante le pressanti richieste di autonomia e le proteste dei religiosi tremitesi. Nel XIII secolo, oramai svincolata dal monastero cassinese, aveva possedimenti in terraferma dal Biferno fino alla città di Trani. Secondo le cronache dell’epoca le tensioni mai sopite con il monastero laziale e i frequenti contatti con i dalmati, invisi alla Santa Sede, portarono i monaci del complesso a una decadenza morale che spinse nel 1237 il cardinale Raniero da Viterbo ad incaricare l’allora vescovo di Termoli di sostituire alla guida dell’abbazia l’ordine di San Benedetto con i Cistercensi. In seguito, Carlo I d’Angiò munì il complesso abbaziale di opere di fortificazione. Nel 1334 l’abbazia fu depredata dal corsaro dalmata Almogavaro e dalla sua flotta, proveniente dalla città dalmata di Almissa, i quali trucidarono i monaci mettendo fine alla presenza cistercense nell’arcipelago. Nel 1412, in seguito a pressioni e lettere apostoliche, e su diretto ordine di papa Gregorio XII, dopo il rifiuto di diversi ordini religiosi, una piccola comunità di canonici regolari, proveniente dalla canonica di Santa Maria di Frigionaia in Lucca e guidata da Leone da Carrara si trasferì sull’isola per ripopolare l’antico centro religioso. I Lateranensi restaurarono il complesso abbaziale, ampliandone inoltre le costruzioni, soprattutto con la realizzazione di numerose cisterne ancora oggi funzionanti ed estesero i possedimenti dell’abbazia sul Gargano, in Terra di Bari, Molise e Abruzzo. Nel 1567 l’abbazia-fortezza di San Nicola riuscì a resistere agli attacchi della flotta di Solimano il Magnifico. L’abbazia fu soppressa nel 1783 da re Ferdinando IV di Napoli che nello stesso anno istituì sull’arcipelago una colonia penale. Nel periodo napoleonico l’arcipelago fu occupato dai murattiani che si trincerarono all’interno della fortezza di San Nicola resistendo validamente agli assalti di una flotta inglese (anno 1809). Di questi attacchi sono visibili ancora oggi i buchi delle palle di cannone inglesi sulla facciata dell’abbazia. In seguito a tale evento, Murat concesse la grazia ai deportati che avevano collaborato alla resistenza contro gli inglesi. Fu così che ebbe fine la prima colonizzazione delle Tremiti, effettuata mediante l’insediamento di colonie penali. Nel 1843 re Ferdinando II delle Due Sicilie con l’intento di ripopolare le isole vi fece insediare molti pescatori provenienti da Ischia che poterono così sfruttare proficuamente la pescosità di quell’area marittima e da famiglie del regno dando luogo così a una seconda colonizzazione delle Tremiti. Campo concentramento delle isole Tremiti, prigionieri arabi Nel 1911 furono confinati alle Tremiti circa milletrecento libici che si opponevano all’occupazione coloniale italiana. A distanza di un anno circa, un terzo di questi erano morti di tifo esantematico. In epoca fascista l’arcipelago continuò a essere luogo di confino, ospitando tra l’altro anche il futuro Presidente della repubblica, Sandro Pertini e Amerigo Dumini. L’autonomia comunale risale al 1932. Nel 1987 Mu’ammar Gheddafi, in virtù delle deportazioni di cittadini libici effettuate soprattutto dal governo Giolitti a partire dal 1911, dichiarò che l’arcipelago era parte della Libia. Tali pretese territoriali seguivano la tensione diplomatica che sussisteva con l’Italia. Nella notte fra il 7 e l’8 novembre 1987 due cittadini svizzeri, Jean Nater e Samuel Wampfler, misero una bomba sul faro di San Domino. Il primo rimase ucciso nell’attentato, il secondo fu catturato e condannato. Sulle prime si pensò a un attentato libico, ma successive indagini chiarirono che i due attentatori, agenti segreti prezzolati, collaboravano con i servizi francesi, nazione con la quale l’Italia aveva all’epoca una controversia diplomatica. Il 28 ottobre 2008 una trentina di abitanti delle isole si sottoposero, volontariamente, all’esame del DNA allo scopo di stabilire se nel loro sangue vi fosse traccia di quei deportati libici del 1911. Il risultato fu negativo. I miti legati a Diomede San Nicola vista da San Domino L’arcipelago ha legato nel corso dei millenni il suo nome a quello dell’eroe acheo Diomede, tanto che in antichità le isole furono chiamate isole Diomedee (Insulae Diomedeae in latino o Διομήδειες in greco antico). San Domino vista da San Nicola La leggenda racconta che nacquero per mano di Diomede, quando gettò in mare tre giganteschi massi (corrispondenti a San Domino, San Nicola e Capraia), portati con sé da Troia e misteriosamente riemersi sotto forma di isole. Qui approdato, l’eroe ebbe il primo contatto con la Daunia, prima di sbarcare sul Gargano, nei pressi di Rodi alla ricerca di un terreno più fecondo, peregrinando per la regione dauna e unendosi in matrimonio con la figlia (Euippe, secondo alcuni Drionna, secondo altri Ecania) di Dauno, re dei Dauni. Una variante di questo mito, con meno basi epiche, vuole che i tre massi fossero avanzati dal carico che l’eroe omerico aveva utilizzato per tracciare i confini del suo nuovo regno, la Daunia, quindi con collocazione dell’episodio già dopo il matrimonio con Euippe. La leggenda, tuttavia, non lega soltanto la nascita delle Tremiti a Diomede, ma vuole anche che Diomede stesso sia morto nell’arcipelago pugliese. Molte narrazioni, pur diverse tra loro, sono accomunate dalla collocazione del luogo della scomparsa dell’eroe nelle isole Tremiti. Alcune parlano della morte avvenuta in seguito a un naufragio, ma la versione più comune della leggenda narra del ritiro di Diomede, insieme ai suoi compagni, sull’arcipelago, dove andrà incontro alla morte. Sull’isola di San Nicola vi è una tomba di epoca ellenistica chiamata ancora oggi Tomba di Diomede. Un particolare interessante della leggenda riguarda le diomedee (che i tremitesi chiamano arenne), caratteristici uccelli che popolano le falesie e le scogliere dell’arcipelago. Infatti si vuole che questi uccelli, dal nome riconducibile all’eroe greco, siano i suoi compagni trasformati da Afrodite per compassione (secondo varie versioni, tra cui quella di Dionisio ) o per vendetta (secondo Virgilio). In quest’ultima versione la metamorfosi dei compagni dell’acheo non è collegata alla morte dell’eroe, ma ai contrasti di questo con la dea Afrodite. La versione non virgiliana, che è anche quella più narrata, vuole invece che la dea, per compassione verso il dolore dei compagni di Diomede, li abbia trasformati in uccelli, appunto le diomedee, che con i loro garriti , soprattutto notturni, continuano a piangere affranti la scomparsa del loro condottiero Il Tesoro di Menelao . Un’altra leggenda legata all’arcipelago, riportata dalla Cronica Istoriale di Tremiti[11], narra di un eremita che scelse l’isola di San Nicolo intorno al 312 d.C. come luogo di ritiro e di contemplazione. Secondo la leggenda, una notte gli apparve in sogno la Madonna indicandogli il luogo in cui doveva scavare per rinvenire un tesoro di monete e monili, il cosiddetto tesoro di Menelao, e di edificare con questi una chiesa in onore della Vergine Maria. Per l’iniziale resistenza da parte del monaco, che ignorò l’invito per non abbandonare la meditazione o forse per timore di un’apparizione diabolica, la Vergine apparve nuovamente, questa volta alterata in volto. Il monaco superò così le diffidenze e le obbedì, ritrovando il tesoro e costruendo con questo un edificio dedicato alla Vergine. Secondo la Cronica, la notizia del ritrovamento miracoloso rese l’isola di San Nicola meta di pellegrinaggio tanto che l’eremita, messo in difficoltà, dovette chiedere l’aiuto del Papa che affidò il governo dell’isola all’Ordine di San Benedetto. All’isola-scoglio del Cretaccio è legata una leggenda, dalle tinte macabre, che vuole che su di esso si aggiri di notte, soprattutto in concomitanza di bufere, un uomo che regge tra le mani la sua testa, popolando lo scoglio argilloso delle sue urla. Sarebbe il fantasma di un detenuto evaso dalla colonia penale presente un tempo nell’arcipelago, che una volta ricatturato, fu decapitato proprio su quest’isolotto. Ad arricchire la suggestione si aggiunge la credenza popolare che vuole che sullo scoglio attiguo, chiamato la Vecchia, prima di ogni temporale compaia il fantasma di una vecchia (da cui il nome dello scoglio) intenta a filare: sarebbe lo spirito di una strega che in epoca remota fu proprietaria dello scoglio. Nelle isole Tremiti la popolazione parla una lingua napoletana (il dialetto ischitano) anziché il dialetto garganico, parlato nella vicina terraferma: questo è spiegabile in quanto l’isola fu popolata da Ferdinando II nel 1843 con pescatori provenienti da Ischia e da famiglie di mercanti del Regno delle Due Sicilie che continuarono a parlare e a diffondere la lingua d’origine anche a distanza di tempo.